Anche in un momento così solenne e, ad un tempo, dolente, si fa largo, si deve fare largo, la speranza.
Raggiungendo oggi, 10 febbraio, la Chiesa di San Paolo a Vercelli per documentare questa “Giornata del Ricordo”, l’attenzione si è appuntata sul piccolo drappello di ragazzi che, sotto il portico del Municipio dove sono le targhe di marmo cui è consegnata la memoria dei Caduti vercellesi, allestivano pochi “segni” commemorativi di quel dramma.
E’ il segno di una volontà, più forte dell’oblio, come se rappresentasse l’idea di una Primavera che arriva anche dopo il più buio e gelido degli Inverni.
Quella speranza che la bellezza di cuori puri rende ragionevole anche quando si deve guardare l’icona del dolore innocente, rappresentata da quella ragazzina, poco meno di una loro coetanea, che la follia del male assoluto aveva reso esule, scampata, forse, anche lei, alla fine orrenda delle foibe.
La storia umana è percorsa e percossa, trafitta, da immagini come questa: il piccolo ebreo del ghetto di Varsavia che cammina con le mani alzate, sotto il tiro tedesco; la bambina vietnamita, nuda, che fugge per mettersi in salvo dall’orrore, lungo quella strada in terra battuta che corre tra risaie insanguinate nel Viet Nam del Nord.
E poi c’è questa piccola italiana che è esule in Patria.
Come i suoi genitori, fugge dall’Istria e dalla Dalmazia, da Fiume, dal Quarnaro italiano.
I patti tra i vincitori della Seconda Guerra Mondiale assegneranno questi territori alla Jugoslavia di Tito.
Ma questo avviene all’esito di mesi in cui non si risparmiarono crudeltà e violenze.
Le milizie “titine” (non è un vezzeggiativo paradossale e grottesco) fecero di tutto per costringere quegli italiani che volevano restare tali ad accettare l’annessione.
Di tutto, compresa la barbarie delle foibe: cunicoli carsici profondi, nei quali, legati tra loro con fil di ferro, venivano buttati, vivi, a morire lentamente ed inesorabilmente, coloro che non volevano accettare di diventare jugoslavi.
Furono migliaia.
Durò dall’8 settembre 1943 al 1947, dall’Armistizio di Cassibile fino ai Trattati di Pace di Parigi.
Per lunghi mesi, tra le due date l’occupazione tedesca anche di quei territori.
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Connazionali che avevano perso tutto.
Era stato loro permesso lasciare i territori italiani ceduti alla Jugoslavia, ma avevano dovuto abbandonare le loro case, ogni loro bene: rinunciarono in nome della Patria italiana.
Tanti arrivarono anche a Vercelli.
Ma per loro non ci fu “accoglienza”.
La Sinistra politica ed il Pci vedevano in loro una minaccia per il mito del Paese guida del socialismo realizzato; altri pensava alla ragion di Stato, che suggeriva di non interrompere il dialogo con il regìme jugoslavo, il socialismo della porta accanto.
Questo bastò perché la loro epopea fosse oscurata non solo dall’ombra di un’ala minacciosa e cinica: si cercò di fare di più, immaginando possibile una damnatio memoriae del loro passato e del loro sacrificio.
Furono sopportati, più che abbracciati: accusati di “portare via” il lavoro agli (altri) italiani.
Il processo di rimozione negazionista ebbe successo per tanti anni.
Finchè, dopo il 1989, il Paese riuscì ad abbattere anche questo muro, prendendo coscienza del dramma.
Poi, nel 2004, la Legge che consegna questo giorno – il 10 febbraio – al ricordo, come ricorrenza nazionale.
Questo il cammino istituzionale della ricorrenza: l’itinerario nei cuori, forse, si è appena iniziato.